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Mi chiamo Natalia Mancini e vivo, lavoro e dipingo a Roma.

È difficile rispondere a chi mi chiede quale sia il mio stile o la mia “cifra” o perché dipingo. L'unica cosa che mi sembra definisca i miei quadri, nonostante spesso siano scaturiti da un impellente bisogno di una comunicazione non verbale, immediata nel senso di “non-mediata”, urgente, è la necessità di creare dello spazio, “rubandolo” al vuoto. È anche per questo che, se la mia pittura non è veramente astratta, quando prende in prestito dalla realtà le forme dei miei cari (che spesso posano per me), si fa astratta, citazione, discorso, e mai emulazione, fedele copia di ciò che vedo. Ammiro gli iperrealisti ma non capisco l'iperrealismo. A me non interessa quello scavo nella realtà fino a renderla indistinguibile dalla sua rappresentazione. In questo sono rimasta la stessa che ero nell'infanzia, iniziata una mattina piovosa il 2 giugno del 1977, un'infanzia i cui pomeriggi sono stati riempiti da fogli sparsi insieme a matite e pennarelli e tempere, davanti mio padre che lavora, Mozart nell'aria, io indaffarata a scolpire nel bianco della carta immagini che esistevano solo dentro di me.

Cerco sempre (ma non sempre con successo) di sfuggire a ogni tentativo di catalogazione (magari è questa la spiegazione dei miei studi di matematica prima, e di lingue e civiltà orientali poi) così come trovo complicato fermarmi su uno stile ben preciso, su un linguaggio ben definito e, in ultima analisi, sulla definizione dell'arte (quale presunzione?). Però una cosa rappresenta per me il punto di partenza di ogni discorso sull'arte (e forse anche di arrivo): se la pittura non è tutto, tutto può diventare pittura.

 

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